La battaglia per l’open | Cap. 1 – La vittoria dell’open | Par. 5 – Lezioni da altri settori
Possiamo cominciare a fare capire perché la celebrazione della vittoria dell’openness è stata ammutolita con due brevi analogie. La prima è quella con quasi tutte le rivoluzioni e con le loro immediate conseguenze. La rivoluzione francese del 1789 ha visto il sollevarsi di un innegabile movimento forte, mirato a rovesciare le ingiustizie imposte dalla monarchia, ma nel decennio successivo ci sono state numerose tensioni tra fazioni opposte, una dittatura e il Regno del Terrore che è culminato con la salita al potere di Napoleone. Quindi anche se i risultati a lungo termine della rivoluzione sono stati positivi, nel corso del decennio successivo e più ancora dopo l’inizio del 1789, i cittadini francesi la dovevano pensare molto diversamente. Durante il governo di Robespierre e dei Giacobini non è chiaro infatti se si stesse meglio rispetto al vecchio regime. E si sentono simili osservazioni anche dopo rivoluzioni più recenti – per esempio i russi che dicono che si stava meglio sotto Stalin o gli abitanti della Germania dell’Est che ricordano con nostalgia il regime comunista (Bonstein 2009). Un esempio più recente è quello delle primavere arabe, che dopo due anni hanno lasciato profonde divisioni in molti paesi, con il peggioramento delle condizioni economiche e con continui e violenti scontri. Molti di quelli che vivono uno stato post-rivoluzionario sarebbero d’accordo nel dire che questa non è una vittoria. Molti gruppi poi hanno tutto l’interesse a sfruttare l’incertezza che la rivoluzione crea, le vecchie strutture di potere non spariscono senza fare rumore, le pressioni di quotidiane preoccupazioni portano a lotte intestine tra chi in precedenza era alleato e così via. È complicato, confuso e decisamente umano.
Un modo di vedere queste rivoluzioni nazionali è considerare che le lotte post-rivoluzionarie sono l’inevitabile sacrificio che porta una democrazia in crescita, ma che la direzione generale è comunque verso la libertà. Viste infatti in una prospettiva storica sono completamente prevedibili per la natura stessa del cambiamento. Ciò rimanda ad una seconda più generale lezione e cioè che è in questi periodi di trasformazione, dopo un’iniziale vittoria, che si determina il successo a lungo termine.
Una seconda analogia è con il movimento green, che una volta era periferico e oggetto di attenzioni solo da parte degli hippies, ma che ora è centrale nel dibattito all’interno della società. I prodotti green sono pubblicizzati, il riciclo è diventato pratica comune, le fonti alternative di energia sono venute ad essere parte di un piano energetico nazionale e ciascun partito politico deve tenere conto di attività ecosostenibili. L’impatto sull’ambiente di ogni grande decisione è ora in agenda, anche se non sempre la priorità. Visto da una prospettiva anni ’50 è un progresso radicale, la vittoria del messaggio eco, eppure per molti nel movimento non sembra affatto una conquista. Lo sforzo globale per mettere in atto accordi significativi sulle emissioni di carbone e le complesse politiche per trasformare questi accordi in interessi davvero mondiali e a lungo termine – da locali e a breve termine – ha reso infatti il messaggio “green” vittima del suo stesso successo. È penetrato così bene nella narrazione mainstream che ora è un valore commerciabile. Il fatto che lo sia è certamente necessario per avere un impatto concreto a livello individuale, per esempio sull’acquisto di macchine, lampadine, cibo, vestiti, viaggi. Ma ovviamente è stato anche sfruttato da aziende che lo usano come un mezzo per commercializzare i loro prodotti. Molti attivisti negli anni ’70 non avrebbero mai previsto che il nucleare avrebbe trovato un rinnovato interesse nella promozione delle sue qualità verdi (ad esempio contro la diossina del carbone) e a prescindere da cosa si pensi sul nucleare, possiamo probabilmente assumere che migliorare la sua reputazione non era certo una delle cose più auspicabili per loro.
Nel 2010 negli Stati Uniti gli assets dove le performance ambientali erano una componente principale sono stati valutati a 30,7 mila miliardi di dollari statunitensi, rispetto ai 639 miliardi di dollari statunitensi del 1995 (Delmas&Burbano 2011). Being green fa decisamente parte del grande business. La conseguenza sono aziende che chiamano i loro prodotti verdi su basi piuttosto pretestuose; il “fat-free” o “dietetico” nei prodotti alimentari, “eco-friendly” o “naturale” o “verde” in altri prodotti significa che spesso nascondono altri peccati o sono di dubbia promozione. È un processo chiamato greenwashing: per esempio l’airbus A380 a quanto si dice produce il 17% in meno di emissioni rispetto ad un Boeing 747, che va benissimo, ma promuoverlo come eco-friendly mi sembra un po’ forzata come definizione. Allo stesso modo la serie di annunci green di BP per promuovere il suo messaggio “oltre il petrolio” fornisce un buon esempio di come il messaggio eco possa essere adottato da compagnie che per la loro stessa natura sono in contrasto con esso.
L’agenzia di marketing ambientale Terra Choice, ha individuato i “sette peccati del greenwashing” (Terra Choice 2010), con analogie che possiamo vedere nella vita di tutti i giorni:
- Peccato del trade-off nascosto – quando un numero estremamente limitato di attributi è usato per rivendicare l’eco-sostenibilità, senza attenzione ad altri importanti problemi ambientali.
- Peccato dell’assenza di prove – quando la pretesa di eco-sostenibilità non è supportata da informazioni facilmente accessibili.
- Peccato di genericità – definizione vaghe e generiche che portano il consumatore a confonderne il significato.
- Peccato di irrilevanza – una definizione che è vera ma non importante o di poco aiuto.
- Peccato del diavolo minore – definizioni che possono essere vere all’interno della categoria di prodotto ma che rischiano di distrarre il consumatore dall’impatto ambientale della categoria nel suo complesso.
- Peccato del raccontare frottole – dare definizioni completamente false.
- Peccato dell’adorazione di false etichette – quando un prodotto, con parole o immagini, dà l’impressione di un’approvazione da parte di terzi che in realtà non esiste.
Nel mondo IT la somiglianza tra il greenwashing e le rivendicazioni di openness ha portato a coniare il termine openwashing. Klint Finley (2011) lo spiega così:
Il vecchio dibattito “open vs proprietario” è finito e l’open ha vinto. Poiché l’infrastruttura IT si sposta verso il cloud, l’openness non è solo una priorità per il codice sorgente ma per gli standard e per l’API. Quasi tutti i commercianti nel mercato IT vogliono piazzare i loro prodotti come open. Quelli che non hanno un prodotto open source invece dicono di avere un prodotto che usa “standard open” o “open API”.
Se da un lato le aziende cercano di accreditarsi come open, vediamo applicazioni del termine anche nel settore dell’istruzione, con un simile cinismo (Wiley 2011a). Come per “green” anche per “open” ci sono una serie di connotazioni positive – e dopotutto chi si metterebbe a discutere sul fatto che è importante essere invece “chiusi”? La cooptazione commerciale del termine green ci porta poi alla terza lezione da applicare al movimento open: la definizione del termine sarà in qualche modo piegata a un vantaggio commerciale. Vedremo questo openwashing più avanti nel libro, in particolare riguardo ai MOOC.
Queste due analogie ci forniscono tre lezioni che incontreremo spesso man mano che esploreremo diverse aree dell’open education. La mia interpretazione di ciò che queste analogie offrono è la seguente:
- la vittoria è più complessa del previsto;
- la direzione futura è modellata dalle lotte più prosaiche che vengono dopo la vittoria iniziale;
- non appena un termine viene accettato come mainstream allora se ne fa un uso commerciale.
Se si osservano queste affermazioni da un punto di vista della open education, non è difficile concludere che la openness ha avuto la meglio. La vittoria potrebbe non essere assoluta, ma il trend va in quella direzione – sembra impossibile che torniamo a sistemi chiusi in accademia così come lo sarebbe ritornare ai venditori porta a porta dell’enciclopedia britannica. Che si tratti di pubblicazioni Open Access, di open data, di MOOC, di OER, di software open source o di open scholarship, il messaggio della openness è stato unanimamente accettato come un messaggio valido (che non vuol dire comunque che deve essere l’unico approccio). Tempo di gioire, si potrebbe pensare, ma ovviamente come la prima lezione ci dimostra, non è mai così semplice. Quando infatti si trattava di “aperto vs chiuso” c’era una distinzione chiara: la apertura andava bene, la chiusura no. Non appena però si è cantata vittoria non ci è voluto molto a capire che la faccenda era diventata più complessa. È nella natura della vittoria in fondo, e così è per l’openness – non dovremmo vederla come un’opportunità mancata o romanticizzare un breve periodo in cui c’è stata una Camelot ora depredata. La direzione generale è positiva, ma questo si porta dietro maggiore complessità. La seconda lezione mette in luce invece che rimpiazziamo la dicotomia open vs closed con una serie di dibattiti più variegati e con sfumature che possono sembrare meno specialistiche. Ad esempio:
- i differenti approcci alla didattica MOOC, chiamati xMOOC o cMOOC (ne parleremo nel capitolo 5);
- la varietà di licenze come la più aperta Creative Commons CC-BY versus la CC-NC che restringe gli usi commerciali;
- le diverse strade per l’Open Access, dalla Gold alla Green;
- le diverse opzioni tecnologiche, ad esempio le piattaforme MOOC vs un mix di servizi forniti da terzi.
Ma è proprio attraverso questi dibattiti minori che si viene a formare il quadro generale, ed è la costruzione di questo quadro generale che il resto del libro cercherà di riportare.
Fonte: http://aliprandi.blogspot.com/2020/03/battaglia-open-cap1-vittoria-open-par5.html
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