Open Access: non cadete nelle leggende metropolitane (parola di Elena Giglia)
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Chi pensa che l’Open Access sia caro, sa quanto si spende ogni anno per gli abbonamenti alle riviste? 7 miliardi e mezzo, globalmente (dato 2016). E per cosa? Per chiudere fuori tutti quelli che non possono permettersi abbonamenti da migliaia di dollari per rivista (medici, professionisti, Piccole e Medie imprese). Il libro bianco del 2016 ha calcolato che se anche tutte le riviste Open Access facessero pagare una APC (spesa di pubblicazione), invece di 7, 5 miliardi se ne spenderebbero 3,5. Dato sovrastimato, perché solo il 26% delle riviste Open Access fa pagare APC.
Chi pensa che l’Open Access sia illiberale, dovrebbe considerare che il 39% di margine di guadagno netto di Elsevier – su un lavoro fornito gratuitamente da autori e revisori – significa che su un milione che il mio ateneo paga a Elsevier 390.000 euro di soldi pubblici [perché di questo stiamo parlando] vanno nelle tasche dei privati investitori in azioni di Elsevier.
Chi pensa che Open Access significhi scarsa qualità, forse dovrebbe dare un’occhiata a Retraction Watch. Ogni giorno ci sono ritrattazioni, per articoli con dati falsi o fabbricati o “scientific misconduct”. Tutti articoli pubblicati su riviste “prestigiose”, peer reviewed, di editori commerciali. E se ha ancora cinque minuti di tempo, si legga l’articolo di Casadevall che dimostra una correlazione netta fra l’Impact Factor della rivista e il numero di ritrattazioni. E in altri cinque minuti può leggere le “Cause della persistenza della Impact Factor mania” che riassume bene tutti i difetti strutturali dell’Impact Factor – che almeno in un caso è stato palesemente falsificato, quando nel 2003 Current Biology fu comprato da Elsevier e magicamente su JCR il numero di articoli pubblicati nel 2001 passò da 528 a 300, portando l’IF da 7 a 11.
Chi pensa che l’attuale sistema di valutazione non abbia alcuna influenza sulla crisi attuale della comunicazione scientifica, può leggere l’editoriale di un chirurgo, che lamenta: dati falsi, dati gonfiati, metodologie poco solide, riproducibilità pari a zero, perché oggi è più importante pubblicare un risultato che un risultato vero. Oppure si legga lo studio che evidenzia un 179% in più di auto-citazioni in Italia dopo la VQR.
E forse sarebbe anche utile sapere che l’Open Access è solo una piccola parte della Open Science, che significa rendere aperti tutti i passi della ricerca. O che in Open Access se si deposita il proprio paper si abilitano servizi come Unpaywall, lo SciHub legale, che funzionerebbe al 100% invece che al 54% se tutti depositassero il proprio lavoro. O come Open Knowledge Maps, mappe visuali della conoscenza. O che si possono preregistrare gli esperimenti (AsPredicted), depositare i dati (Zenodo), i software (GitHub), immagini dati e figure (Figshare), interi procolli (Protocols.io), interi workflow (My Experiment). O che si possono usare gli Open Lab Notebook che eseguono in tempo reale i calcoli fatti sui dati, o che si può annotare ogni pagina web (Hypothes.is).
Trovate tutti i riferimenti alla letteratura e ai servizi citati in queste slides (https://www.oa.unito.it/new/materiale-scaricabile/) o in questo video (https://www.oa.unito.it/new/video/#) e maggiori informazioni su Open Science e Open Access su www.oa.unito.it.
Il mondo, fuori dall’Italia e dall’ANVUR, sta cambiando. Forse dovremmo accorgercene anche qui, evitando nel 2018 i pregiudizi e le leggende metropolitane di 10 anni fa.
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