La mera digitalizzazione non crea un copyright
In questo articolo cerco di chiarire una volta per tutte un concetto chiave del diritto d’autore che viene a mio avviso troppe volte dimenticato se non volutamente ignorato: l’attività di semplice digitalizzazione di documenti di pubblico dominio non crea un diritto di privativa a favore di chi la realizza. Argomenterò in maniera più dettagliata in un paper di prossima uscita; ma ritengo fondamentale e urgente mettere nero su bianco queste considerazioni.
Per approfondire, suggerisco di leggere anche le voci “When to use the PD-scan tag” e “Threshold of originality” sul sito di Wikimedia Commons.
Altri miei articoli su temi simili:
- Il copyright anche dove non c’è. La vicenda del pubblico dominio perduto (leggi)
- Copyright senza confini, usi liberi sempre più limitati (leggi)
Il FUD per comprimere il pubblico dominio
L’industria del copyright ha negli anni sviluppato degli “anticorpi” contro il pubblico dominio e ha trovato vari modi per mantenere il controllo su opere anche molto datate e quindi comunemente (ma anche ingenuamente) considerate ormai patrimonio dell’umanità.
Gli artifici e gli stratagemmi sono vari e non possono essere illustrati nel dettaglio in questa sede; trovate qualche spunto nel video e nelle slides del mio intervento al Festival del pubblico dominio tenutosi a Torino lo scorso dicembre (vai al post). Tuttavia ad accomunarli c’è l’idea di incutere nei potenziali utilizzatori quello che nel gergo dei nuovi media è chiamato FUD, cioè fear, uncertainty, doubt (paura, incertezza, dubbio). Secondo questo approccio, non conta tanto la legittimità di una pretesa o la reale sussistenza di un diritto; ciò che conta è incutere timore nei potenziali utilizzatori in modo che, presi appunto dal dubbio, preferiscano astenersi per non incorrere in scocciature legali. Questa forma di “copyright trolling” è assolutamente da deprecare, in un mondo come quello di oggi in cui il livello di confusione e incertezza su questi temi è già fisiologicamente elevato.
Digitalizzazione e carattere creativo
Sempre più spesso sento sostenere la tesi secondo cui dare in pasto dei documenti del 1700 (manoscritti, spartiti, cartine geografiche…) a uno scanner generi un non ben definito diritto di privativa a favore di chi ha realizzato la digitalizzazione. Chiariamolo una volta per tutte: la mera digitalizzazione, a maggior ragione se fatta con sistemi automatizzati, non genera un diritto d’autore e nemmeno un diritto connesso. Tenendo ben presente che l’elemento costitutivo del diritto d’autore è il “carattere creativo” e quindi la sussistenza di una scelta creativa/intellettuale da parte di un autore, si capisce che una mera digitalizzazione è quanto di meno creativo possa esistere (anzi, meno creativa è meglio è!); tant’è che può essere tranquillamente eseguita da una macchina. Essere la persona che ha comprato la macchina o che ha premuto il tasto che attiva la macchina o che ha scritto il software che fa funzionare la macchina non sono requisiti sufficienti affinché si crei un diritto di privativa sulla digitalizzazione. E non rileva il fatto che per effettuare la digitalizzazione servano tempo, risorse e competenze tecniche, perché comunque il diritto d’autore richiede che vi sia un’attività creativa anche minima. Gli anglosassoni definiscono l’originalità/creatività come la somma di tre “ingredienti”: skill, labour, judgement, cioè competenza, lavoro/fatica e scelta/giudizio. Difficilmente una procedimento automatizzato può integrare pienamente questi tre requisiti.
La legge sul diritto d’autore lo dice chiaramente
Si tenga presente inoltre che la legge italiana sul diritto d’autore, pur attribuendo una tutela minore (un diritto connesso di vent’anni dallo scatto) per le fotografie con intento di documentazione e prive di carattere creativo, all’articolo 87 precisa che non sono soggette ad alcun tipo di protezione le fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili; in effetti tali riproduzioni non integrano né un intento creativo in senso pieno, né un intento di documentazione.
Rimane solo il diritto sui generis
Dunque, l’unico diritto di privativa che può insistere su queste digitalizzazioni, è il cosiddetto diritto sui generis, di cui abbiamo discusso spesso in queste pagine e di cui non possiamo illustrare nel dettagli il funzionamento in questa sede (a tal proposito rimando alla mia videolezione “Quali diritti sui dati?“). Tale diritto però si può avere solo quando le digitalizzazioni vengono raccolte e organizzate in una banca dati e quando questa attività di raccolta e organizzazione ha richiesto un rilevante investimento. E comunque copre solo eventuali estrazioni e riutilizzi di parti sostanziali della banca dati. Sul singolo file, diffuso al di fuori di una banca dati, non vi è alcun diritto di privativa.
Licenze Creative Commons su opere di pubblico dominio?
Ne consegue anche che rilasciare queste digitalizzazioni con delle licenze open content (Creative Commons o simili) diventa un non-sense giuridico. Una licenza può essere applicata da chi detiene i diritti su un’opera; se nessuno detiene dei diritti, nessuno può applicare una licenza. Inoltre che utilità ha dire che un’opera è utilizzabile liberamente attraverso una licenza open se quell’opera è già in pubblico dominio e quindi di per sé già liberamente utilizzabile senza alcun vincolo e senza alcuna condizione? In tutti quei casi, la scelta più opportuna è l’applicazione di un “public domain mark” tipo quello proposto da Creative Commons (vedi) o anche un semplice disclaimer che chiarisca lo status di pubblico dominio (come ad esempio quelli utilizzati da Wikimedia Foundation nei suoi siti web).
Certo, c’è sempre la famosa tutela sulle riproduzioni di beni culturali prevista dagli articoli 107 e 108 del Codice Beni Culturali… ma quella è tutta un’altra storia (di cui tra l’altro abbiamo già parlato in altra sede); e comunque non ha nulla a che fare con il copyright.
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