By Luigi Fontana
In questo mondo dominato dalla tecnologia ormai la parola “hacker»è in bocca a tutti. Alcuni, i più attenti, distinguono gli hacker dai cracker. I primi sono “quelli curiosi» ed i secondi sono “quelli che mettono i virus». Lungi da me il lanciarmi in un’interminabile digressione sulla cosa. Sta di fatto, però, che la filosofia hacker, ad oggi, è cambiata tantissimo.
Gli hacker nacquero come evoluzione dei “Phreak»: gli smanettoni dei telefoni. Con l’avvento delle prime reti informatiche essi subirono, ovviamente, il fascino di questo nuovo mezzo.
Telnet, Videotel e simili si offrivano come ottimi candidati per diventare il parco giochi degli smanettoni. Infatti ai due capi del filo non vi erano più due semplici apparecchi per la diffusione vocale ma due veri e propri terminali in grado di ricevere ed inviare dati e di essere programmati.
Ovviamente le mire dei primi hacker erano pratiche: accesso gratuito, furto di dati (spesso fatto innocentemente) oppure semplici prove di abilità. I metodi per aggirare gli ostacoli erano vari e fantasiosi e molte volte, mentre i più si immaginavano lo smanettone immerso in complicati listati, questi consistevano nell’arrampicarsi su un palo del telefono ed aggredire la rete “fisicamente».
Poi c’erano le macchine, computer su cui si contava ogni bit, che era ancora possibile conoscere in modo completo. Ben presto la curiosità prese il sopravvento sul fine. Conoscere, curiosare ed usare gli oggetti in modo creativo divennero le colonne portanti della filosofia hacker.
Ma oggi?
Se possiamo paragonare i primi hacker a dei novelli Robinson Crusoe che, arrivati sull’isola deserta, usavano la fantasia e l’inventiva per piegare quel poco che avevano alle loro esigenze, ad oggi i nostri “naufraghi» si trovano a voler navigare sull’oceano immenso. A dover abbandonare l’isolotto che conoscono come le loro tasche.
Il “capire» ed il “comprendere» diventano necessariamente parziali. Ed è frustrante il sapere che la conoscenza completa del mondo digitale è praticamente negata ad un singolo essere umano.
Chi ha ancora uno o più scopi si focalizza su quelli, spesso e necessariamente lavorando in team con altri. Chi è ancora affezionato al lavoro solitario sceglie spesso la via dell’isolamento, avventurandosi nella ricerca personale e, spesso, rifiutando l’aiuto della rete. Se da un lato questo li porta quasi sempre a “scoprire l’acqua calda», ovvero a capire concetti già noti, dall’altro cercare di carpire al codice i suoi segreti dona a loro una padronanza concettuale dello stesso che pochi posseggono.
Questo però li taglia fuori dai grandi exploit, questi hacker non sono quelli che faranno crollare la borsa di New York o, più realisticamente, che finiranno sui giornali per aver “bucato» qualche sistema famoso. Eppure, parere squisitamente personale, è proprio in loro che sopravvive lo spirito di quel ragazzino arrampicato sul palo della Bell. Sì, è vero, perdersi tra le righe di C o di Python contando i byte del primo o meditando sugli usi creativi del moduli del secondo porterà, nel novanta percento dei casi, a ricreare script che si trovano già sulla rete, a portata di pochi click.
Però in mezzo c’è quella parola meravigliosa: “creare». Quella parola che spesso ci spinge ad andare avanti nel nulla, senza ricompense tangibili. Quella parola che ha l’immenso potere di far diventare una macchina, un computer, qualcosa di veramente nostro.
Capire e creare sono, e saranno sempre, le vere chiavi dello spirito hacker. E, probabilmente, non solo di quello.
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